Master in MBA a Tor Vergata, barba volutamente incolta per essere preso sul serio dagli italiani, Tariel Bisharian – imprenditore del lusso inciampato nella moda per un incidente di “campanello”-, in pochi anni ha trasformato Emerging Talents Milan in una piattaforma internazionale e creativa che ha scoperto e supportato circa 80 marchi provenienti da 30 paesi diversi. Un business fashion network ben oltre la produzione di un catwalk temporaneo per brillanti designer provenienti da tutto il mondo con base fissa a Milano, la città che Tariel ha scelto per lavoro e non ha più lasciato «perché l’Italia» spiega «anche se chi la vive non se ne rende più conto, ha ancora un grande appeal: è – e sarà sempre -, un’occasione incredibile. L’ombelico di tutti i creativi del globo».
Emerging Talents Milan sta per alzare il sipario!
A palazzo Visconti si respira già il vento di una nuova effervescente stagione e, mai come adesso, abbiamo bisogno di sognare, credere in nuovi progetti..respirare bellezza!
Un armeno che si occupa di moda in Italia per designer in erba provenienti da tutto il mondo, un progetto decisamente ambizioso…come ci sei riuscito?
«È successo tutto per caso, non pensavo di esercitare nel campo della moda. Dopo un master a Roma in Business Admnistration ho iniziato a fare consulenze aziendali, spostandomi dalla capitale a Milano. L’idea di partenza era quella di aprire uno showroom per portare in Italia il business artigianale della mia famiglia legato all’interior designer. Avevo trovato un locale interessante e, proprio mentre si stava svolgendo la settimana della moda milanese, qualcuno ha suonato il campanello sbagliando! Erano buyers che cercavano Dries Van Noten, fondatore belga dell’omonimo fashion brand, ho approfondito! Conoscevo già i problemi lamentati da tutti gli emergenti: la mancanza di spazi, la difficoltà di essere rappresentati a Milano. Così ho pensato che valesse la pena provare, nel 2015 ho aperto il mio showroom e un anno dopo ho iniziato ad organizzare eventi moda».
Così è nato Emerging Talents Milan proprio durante la settimana della moda. Un azzardo non credi? Il rischio era quello di realizzare un evento che, rispetto a tutti gli altri, trovasse pochi riflettori.
«Sì c’era questo rischio, ma la peculiarità di Emerging è che nasce con una mission diversa. Non siamo produttori di sfilate, ma un vero e proprio network professionale; una piattaforma che aiuta a fare business. Che fornisce consulenza completa per lo sviluppo aziendale anche dopo lo “spettacolo”. La moda non è soltanto una questione di spazi da conquistare e visibilità (che comunque abbiamo sui più importanti network), bisogna capire come funziona dal punto di vista commerciale e, spesso, i designer alle prime armi non sanno come muoversi. La componente creativa da sola non basta ed è per questo che con noi c’è un team professionale che cura tutto con la stessa attenzione destinata ai grandi marchi. Nessuno si occupa così degli emergenti, pochi fanno follow-up. Ecco spiegato il segreto del nostro successo».
Ci sono quindi dei marchi nati con voi che siete riusciti a portare al successo?
«Ci sono molti marchi che con noi sono riusciti ad allargare la loro rete vendita. Negli Emirati Arabi, per esempio, sui quali siamo molto presenti, abbiamo diverse storie di successo. Per arrivare al riconoscimento mondiale, naturalmente, serve tempo».
Hai parlato di errori comuni. Qual è, secondo la tua esperienza, l’errore più frequente commesso dai designer che finisce per scoraggiarli?
«L’organizzazione dell’idea. Spesso i creativi non sanno quanto vendere. Hanno difficoltà a calcolare costi e prezzi di listino. Il problema è che non posso fare tutto da soli, ogni azienda dovrebbe avere una struttura di supporto o, quanto meno, un CEO che si occupi di affari. Quando questo non c’è, interveniamo noi con un affiancamento temporaneo».
C’è ancora un sogno italiano? Perché gli emergenti desiderano farsi conoscere qui?
«Altroché, esiste eccome! Se c’è un paese osservato da tutto il mondo per storia, stile e tradizione quello è l’Italia, parola di armeno. L’Italia è il sogno! Lo è stato per me quando sono arrivato a Roma e mi sono trovato di fronte alla fontana di Trevi, pensando davvero di trovarmi in un film di Fellini, lo è – ancora oggi -, un po’ per tutti. Questo Paese è l’antidoto contro la globalizzazione, un giacimento culturale di informazioni e saperi tramandati di cui non ci rendiamo nemmeno più conto, vivendolo quotidianamente. Chi viene qui assorbe e, il bello, è che in Italia tutti possono trovare il proprio angolo, perché l’italiano è educato al bello».
La moda è in difficoltà in questo periodo, come moltissimi altri settori ha subito un attacco durissimo. Dove pensi che andrà? Quali soluzioni dovrà adottare per risalire la china?
«Ci sarà un ritorno allo slow fashion. Quella che è destinata a sparire è l’accelerazione dei processi. Il Covid ha fatto luce su quello che già non andava e doveva assolutamente cambiare direzione. Per risalire la china? Qualità, non quantità! Meno pezzi e più collezioni in edizione limitata che già portano con sé un ritorno all’artigianalità e all’eco-sostenibilità, i due trend più richiesti di oggi! Se crei meno, automaticamente, produci meno scarti. Se realizzi prodotti di qualità lavori sul “timeless”, sul ciclo di vita del capo. Un abito destinato a durare non va ripetutamente a finire nella pattumiera come un capo che costa 10€. E poi 10€? Non è possibile! Bisogna farsi due domande prima di acquistare una cosa del genere».
Quanto durerà quest’anno Emerging?
«Dal 23 febbraio al primo marzo con sfilate e presentazioni in presenza».
Cosa accadrà una volta calato il sipario? Che programmi avete?
«Tutto dipenderà dall’apertura dei confini. Se riusciremo a spostarci abbiamo già in programma una serie di eventi a San Pietroburgo e a Doha, in Qatar. Abbiamo, inoltre, individuato uno spazio per realizzare un nuovo concept store. Uno spazio creativo, con servizi dedicati nel cuore di Milano».
Come si realizzano i sogni Tariel?
«Con il duro lavoro e la dedizione. Ogni sogno può essere realizzato con un piano, ma la differenza, nel lungo termine, dipende dalla passione. Niente funziona solo per il bene del denaro».
Ma è vero che per lavorare in Italia hai dovuto farti crescere la barba?
«Sì (ride di gusto, ndr). Italiani e armeni hanno standard molto diversi rispetto all’età. Quando ho iniziato a fare consulenza in Italia, all’età di 27 anni, non sono stato preso sul serio. Ero troppo giovane! Mentre da noi se, entro i trenta, non hai concluso nulla ti guardano con sospetto. Così mi sono fatto crescere la barba, per sembrare più grande».
Di Daniela Iavolato