Ornella è figlia d’arte, produce borse per conto di griffe di alta moda, nel rispetto dell’eccellenza e della più antica tradizione manifatturiera made in Italy. L’azienda della sua famiglia appartiene alla storia della pelletteria napoletana. Nel 2000, in piena crisi di mercato, suo padre – maestro artigiano -, ha un incidente e la fabbrica viene investita da un violento e imprevisto tsunami che porta via committenti, dipendenti e sogni. «Restare o ricominciare altrove mentre tutto il mondo sembra cospirare contro di te? ». Una storia che è un inno al coraggio e alla capacità di reinventarsi…che insegna a vincere costruendo..dove tutti gli altri stanno fallendo!
Sei cresciuta nella fabbrica dei tuoi genitori, ma avevi ben altri progetti per te. Che cosa ti ha riportato nell’azienda di famiglia?
«La catastrofe che nel 2000 ci ha coinvolti sia finanziariamente che dal punto di vista umano. Eravamo già nel pieno di un tracollo del mercato quando un incidente costringe mio padre a uno stop di tre mesi. Aveva una gestione estremamente centralizzata, non era capace di delegare! Per cui, insieme a lui, si ferma tutto. L’azienda, da iper produttiva, inizia a crollare un pezzo alla volta. Gli operai da trenta, passano a cinque. Io andavo all’università e odiavo la fabbrica, la consideravo una gabbia senza via di uscita. Mi sono allontanata dalla mia famiglia e ho fatto mille e uno lavori per mantenermi. Creare borse è stata una decisione maturata in età più adulta, arrivata insieme al desiderio di restare per dare un contributo alla mia terra, oltre che alla mia famiglia. Sono rientrata chiamata dai miei genitori, ma all’inizio non è stato semplice perché ho dovuto fare i conti con una visione di business “vecchio stile”, poco innovativa e al passo con i tempi. Si lavorava sottocosto per compiacere il mercato campano. Una situazione ingestibile che non aiutava a crescere. Nel 2013 siamo stati investiti da una nuova crisi. Così ho preso in mano le redini della situazione e ho deciso che si doveva fare a modo mio. Sono entrata in azienda e l’ho rivoltata come un calzino, reinventandola e trasformandola, promuovendola dove gli altri nemmeno capiscono perché ha senso esserci. Ho affrontato il “sistema”, attirando inevitabilmente antipatie e simpatie. Se fossi restata con le mani in mano non sarebbe cambiato nulla! Mi sono armata e sono andata!».
Di quale sistema parli? Ti sei armata e sei andata ad affrontare chi e che cosa?
«Sono andata ad intercettare una nuova clientela più profittevole che pagasse, soprattutto! Il problema del mio settore è che è fatto di luci e ombre, una sorta di casta chiusa che vive di passaparola e conoscenze..chiamiamole pure “raccomandazioni”. I recruiter si muovono per presentazioni, non esiste merito né, tanto meno, un piano di organizzazione e marketing dedicato al settore; nessuno vende manodopera in maniera esplicita e mi sono sempre chiesta il perché. Funziona così: se conosci, lavori! Questo è quello che io chiamo “sistema”; si mantiene in piedi da generazioni un po’ in tutta Italia, tra giri di omaggi e scambi di favori e la risposta, quando cerchi di cambiare le cose, è sempre la stessa: «Si è sempre fatto così!». E..si continua a fare così.
Quindi tu che cosa hai fatto?
«L’esatto opposto di quello che fanno tutti gli altri. Anziché aspettare che qualcuno mi raccomandasse per entrare nel “giro”, ho presentato e fatto conoscere la mia azienda all’esterno, ho bussato alle porte delle griffe ed è arrivato Gucci. Mi sono ritrovata con quattro ispettori in fabbrica, ho superato il colloquio e siamo partiti con i primi test, da lì è stato un crescendo. Poi ho ripreso in mano i miei libri e ho iniziato a studiare marketing e i nuovi strumenti digital. Ho imparato che esisteva un mondo fuori dalla mia fabbrica per me, anche se faccio il terzista. Ho trovato un modo per parlare di borse, raccontare la filiera, pretendere che sia certificata. Presento nuovi brand, porto la gente in fabbrica con me, racconto i sacrifici che ci sono dietro l’artigianato e provo ad educare le persone contro la contraffazione e il mercato parallelo che uccide i piccoli imprenditori e toglie fette di mercato importanti ai brand».
Infatti sei seguitissima sui social e sul tuo canale Youtube dove racconti cose anche un po’ scomode. Non hai paura?
«Sì e mi sono beccata anche qualche minaccia, dicono che parlo troppo ma pazienza! Non è con l’omertà che si cambiano le cose, ma prendendo posizione!».
La tua soluzione per uscire fuori dal territorio e aprirsi a nuove esperienze sono, dunque, i social. Nel frattempo però ti sei dedicata anche alla carta, dando alle stampe un libro in cui sostieni che la valorizzazione di Napoli, la tua terra, passa anche attraverso le borse. Ci spieghi che cosa significa?
«L’idea del libro è nata proprio per spiegare tutte le cose che ti sto raccontando. Napoli passa sempre come la pecora nera d’Italia, il regno della contraffazione dal quale bisogna andare via. Non metto la polvere sotto il tappeto, è abbastanza evidente che sono la prima a metterci la faccia nel bene e nel male, ma dobbiamo dire le cose come stanno. Napoli è un polo di eccellenza che produce per marchi come Dior e Luis Vuitton e, se le fosse riconosciuto questo merito, se la pelletteria napoletana riuscisse ad ottenere la giusta visibilità, attirerebbe gli interessi di brand da tutto il mondo. Considerato che i media tradizionali non lo raccontano, dobbiamo farlo noi ed è quello che chiedo continuamente anche ai miei concorrenti “ci uniamo? Ci presentiamo?”. Io sarei felice se loro prendessero le mie stesse iniziative sul web, sarebbero motivo di crescita e valorizzazione per tutto il settore».
Proviamo a dare un po’ di consigli utili. Se qualcuno volesse produrre e lanciare una collezione di borse..quali sono gli step da seguire?
«Per prima cosa bisogna cominciare a capire a chi si vuole vendere perché, questa distinzione, porta già con sé le caratteristiche della borsa. Se stai pensando di realizzare un tuo marchio, creati un personaggio immaginario e inizia a buttare giù un business plan nel quale non manchino le voci “Internet” e social marketing. Studia la concorrenza e cerca di trovare qualcosa per cui puoi essere unico. Ricorda che quando crei un brand i primi 3/5 anni sono di investimenti e reinvestimenti, per cui bisogna essere pazienti e costanti. I risultati non sono immediati».
Come si diventa brand? Come si comunica la moda oggi?
«La moda si comunica in prima persona, lavorando tantissimo sul personal branding che è la cosa più complicata da fare perché, la maggior parte delle persone, non ha coerenza online. I “consumatori” quando cercano il prodotto leggono, di conseguenza, vince chi ha una forte storia da raccontare, chi ha foto e post curati e ben scritti. La borsa non è un oggetto necessario ma emozionale, quindi, si deve sentire la presenza di una forte territorialità, raccontare anche il dettaglio: dove è stata fatta, chi l’ha fatta, chi l’ha pensata e progettata proprio in quel modo e perché. In più, bisognerebbe avere l’accortezza di trasferire tutte queste attenzioni pre-vendita anche nel processo post-vendita. Pochi, per esempio, ringraziano il cliente con un bigliettino personalizzato nella confezione, pochissimi si preoccupano di conoscere le opinioni di chi acquista inviando, per esempio, una mail diretta. Eppure hanno a disposizione i dati».
Quali sono, secondo te, i profili da seguire per imparare a comunicare bene la moda? Da quali marchi chi comincia può prendere ispirazione?
«Esatto! La strada giusta da seguire, prima di lanciarsi in maniera maldestra, è imparare osservando gli altri! un brand che ci sa fare alla grande è Velasca, ma ce ne sono tantissimi..il primo che mi viene in mente è Antonio de Patrizi. Sul mio profilo comunque potete trovare una marea di esempi».
Che direzione stanno prendendo il made in Italy e la pelletteria? Nel periodo in cui ci troviamo dobbiamo continuare a progettare il futuro?
«Il momento è difficile e lo dico con un nodo alla gola. Molte aziende chiuderanno e il made in Italy verrà sostituito dalle macchine. Gli artigiani resteranno relegati a fabbriche di piccole e medie dimensioni al fianco di quelle aziende sartoriali che compiono scelte di handmade estremo. Questo però non significa mollare! Abbiamo a disposizione molte più cose gratuite del passato, invece di piangersi addosso dobbiamo imparare a colmare le lacune e coltivare il pensiero digitale. Se sei un artigiano, se hai un progetto, inizia a piantare le basi e testare online, osserva il mercato e comincia!».
Ornella è stato un piacere chiacchierare con te. C’è qualcosa che non ti ho chiesto che vorresti ancora dire?
«Sì, vorrei far passare questo messaggio. Il mercato del lavoro e, in generale la nostra cultura, non è ancora abituata a donne imprenditrici intraprendenti. Non abbiamo supporti e un adeguato welfare pronto a sostenerci. Si dà per scontato che un’imprenditrice possa affrontare da sola le spese per baby-sitter e nidi, per dirne una, questo purtroppo non è sempre vero e crea un gap notevole tra il desiderio e la concreta realizzazione. Molte donne hanno paura di fare impresa proprio per la mancanza di aiuti, mentre io sogno un mondo in cui più donne riescano a fare impresa e rendersi autonome».
Di Daniela Iavolato
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